I profili fiscali del trasferimento in Italia della sede di una società estera
Il legislatore italiano ha disciplinato espressamente la fattispecie del trasferimento all’estero della residenza di soggetti che esercitano imprese commerciali disciplinata con il meccanismo dell’exit tax (art.166 TUIR). Nulla invece è stato previsto per la fattispecie concettualmente speculare del trasferimento in Italia della sede di una società straniera.
Il problema principale discendente dall’ipotesi in questione è quello relativo al valore fiscale da attribuire alle partecipazioni comprese nel patrimonio della società al momento del trasferimento della sede legale in Italia, anche in considerazione del fatto che il nostro ordinamento non prevede alcuna imposizione all’atto di ingresso della società estera.
A tale proposito si confrontano due tesi principali che fanno capo all’adozione di due distinti criteri di valutazione del valore fiscale dei beni della società trasferenda: il criterio del “costo storico” ed il criterio del “valore corrente” al momento del trasferimento nel territorio nazionale.
Il criterio del costo storico sarebbe utilizzabile nelle ipotesi, come quella del trasferimento di sede, caratterizzate dall’assenza di atti di natura traslativa dei beni da valutare e dall’esigenza di garantire la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti.
Il criterio del valore corrente, invece, sarebbe più idoneo a rappresentare situazioni di discontinuità giuridico-tributaria e di fuoriuscita di beni dal patrimonio del soggetto passivo d’imposta, nonché ad evitare fenomeni di doppia imposizione nel caso in cui nello Stato estero fosse prevista la tassazione dei plusvalori latenti fino al momento del trasferimento.
L’Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione in esame, la quale esaminava il caso del trasferimento in Italia della sede legale di una holding lussemburghese costituita ai sensi del decreto granducale del 17 dicembre 1938, ha confermato la sussistenza dei suddetti criteri. Infatti, relativamente al valore da attribuire ai beni ricompresi nel patrimonio della società, l’Amministrazione Finanziaria, ricordando che le soluzioni prospettabili alternativamente sono sostanzialmente quella del costo storico e quella del valore corrente, ha affermato che “il criterio del costo storico, alla base degli ordinari principi di determinazione del reddito di impresa, può essere utilizzato nelle ipotesi caratterizzate dall’assenza di atti di natura traslativa dei beni da valutare e dall’esigenza di garantire la continuità dei valori fiscalmente riconosciuti”, mentre “il criterio dee valori correnti è ritenuto più idoneo a rappresentare situazioni di discontinuità giuridico-tributaria e di fuoriuscita di beni dal patrimonio del soggetto passivo d’imposta, nonché ad evitare fenomeni di doppia imposizione nel caso in cui nello Stato estero fosse prevista la tassazione dei plusvalori latenti fino al momento del trasferimento (cd. Exit taxation)”.
Pertanto, quando come nel caso esaminato dall’Amministrazione Finanziaria, il trasferimento avvenga in regime di continuità giuridico-civilistica senza atti traslativi nei confronti di altri soggetti e senza tassazione delle plusvalenze latenti nel Paese di origine, i valori fiscali dei beni devono coincidere con quelli basati sul criterio del costo d’acquisto sostenuto dall’impresa.
Con la Risoluzione in esame l’Agenzia delle Entrate ha fornito un ulteriore importante chiarimento in merito ai problemi interpretativi che si sono spesso posti con riguardo al caso del trasferimento di sede legale più volte oggetto di studio da parte della dottrina, a causa dell’assenza in ambito sia comunitario che nazionale di norme volte alla regolamentazione di tale fenomeno.
A tale proposito occorre ricordare che già con la Risoluzione n. 67/E del 30 marzo 2007, l’Agenzia delle Entrate si era pronunciata su tale argomento affermando che il principio per cui i valori da attribuire ai beni in “ingresso” devono ritenersi quelli correnti, è principio generale da preferirsi a quello alternativo basato sui valori storici, in quanto “ il più idoneo a salvaguardare il diritto al prelievo dello Stato nel quale si è avuto l’effettivo incremento di valore delle partecipazioni, ma anche il più efficace al fine di evitare sia fenomeni di doppia imposizione che salti d’imposta.”
L’agenzia, quindi, ha affermato che il criterio dei valori correnti non è l’unico applicabile e che quello del costo storico è utilizzabile qualora i plusvalori latenti non siano tassabili nel Paese di origine.
Tale impostazione appare, inoltre, in linea con le indicazioni della Commissione Europea, che, nella Comunicazione Com (2006) n. 825 del 19 dicembre 2006, ha rilevato che si potrebbero comunque verificare arbitraggi fiscali finalizzati ad assoggettare a imposizione le plusvalenze negli Stati con aliquote più basse.
In entrambe le risoluzioni l’assunzione dei beni ai valori correnti risulterebbe condizionata dal pagamento di una exit tax nel paese di origine.
Tuttavia, l’identificazione della sussistenza di exit taxes nell’ordinamento dello Stato di partenza quale condizione necessaria per l’assunzione dei beni in ingresso sulla base dei valori correnti non appare del tutto convincente.
Infatti, in primo luogo appare criticabile il sillogismo exit tax-operazione traslativa e viceversa, in quanto il carattere traslativo dell’operazione è una qualificazione dell’operazione che discende dalla sua natura e che perciò si può escludere per quelle operazioni come il trasferimento extraterritoriale di sede che si svolgono su un piano intersoggettivo; in secondo luogo, l’esistenza di una exit tax estera non può addursi quale criterio soddisfacente tutte le volte in cui alla previsione generica non si accompagni un effettivo pagamento.
A ciò aggiungasi che il soddisfacimento del principio di simmetria richiede che, almeno nel caso di soggetti che svolgono attività di impresa commerciale, vengano tassate unicamente le plusvalenze generatesi nel periodo durante il quale il soggetto ha stabilito la propria residenza in Italia, e non anche quelle generatesi prima, sulle quali sarà lo Stato di provenienza ad esercitare la propria potestà impositiva.
Come precisato, la necessità di assumere il valore corrente quale valutazione dei beni aziendali “in entrata” nel circuito fiscale italiano, non può prescindere dalla applicazione di corretti principi contabili.
Anche prima dell’entrata in vigore della legge 244/2007 ci si era chiesti se fosse possibile, in occasione del trasferimento, rivalutare i beni trasferiti, oltre che dal punto di vista fiscale, anche dal punto di vista contabile.